Perché, per chi, purché…

La mia poetica teatrale

Di Chiara Amplo Rella

 

Credo nel teatro come creativa ricerca di autenticità individuale e come celebrazione collettiva in cui condividere l’essenziale bellezza della vita.

Teatro è un insieme di pratiche creative che si sviluppano attraverso varie fasi di preparazione per arrivare ad un evento spettacolare dal vivo. Nella sua risultante concretizzazione, teatro è dunque evento dal vivo che prevede la compresenza di almeno un attore e di un pubblico. Come evidenziato da artisti e movimenti del Novecento, l’arte teatrale implica un lavoro approfondito dell’attore su sé stesso. Fin dalle sue antichissime origini, inoltre, il teatro è connesso ai temi e all’esperienza del sacro e insieme ai rapporti tra i membri di una comunità.

Da qui prendo le mosse per questa breve presentazione della mia poetica teatrale, cioè delle motivazioni profonde, delle pratiche e degli intenti che animano quella che è la mia vocazione. Con la parola teatro si indicano oggi tante diverse realtà. Per come lo intendo io, il Teatro riguarda la Vita, perché nelle varie fasi della sua pratica possono essere coinvolte tutte le dimensioni dell’umano essere al mondo: la dimensione fisica, corporea, biologica, materiale, la dimensione psicologica, la dimensione relazionale, sociale, politica, la dimensione spirituale e tutte le connessioni tra queste dimensioni.

Quando parlo di ricerca di autenticità individuale, voglio dire che il mio lavoro creativo è per me un’incessante ricerca interiore tesa a riscoprire e poi esprimere la verità del mio essere, nelle sue tante possibilità. Questa ricerca riguarda il corpo, il movimento, la voce, l’emozione, il pensiero e il linguaggio. Per questa ricerca posso servirmi di maschere, di personaggi. Attraverso ogni personaggio che interpreto prende vita una parte di me, più o meno attuale o potenziale, ma comunque reale. È un lavoro di integrazione con il quale aspiro a riscoprire, proprio facendo esperienza di tutte queste diverse e realissime personalità, un’energia che si trova oltre la mia stessa personalità e attinge ad un’identità molto più profonda. E vera.

Tutto questo non potrebbe accadere se non ci fosse il pubblico. L’evento teatrale è per me una celebrazione collettiva. Per quanto una parte consistente e preziosissima del mio lavoro creativo si svolga in completo raccoglimento individuale, il mio teatro comprende almeno un altro attore fondamentale: lo Spettatore. Con lo spettatore condivido, una volta in scena, la mia intima ricerca. È in questa relazione tra me e lo spettatore che si gioca tutto. Ciò che accade in scena riguarda anche lui. Lo spettatore è coinvolto emotivamente e durante lo spettacolo vive, attraverso il mio, un suo movimento interiore, una sua esperienza di ascolto attivo dell’altro e di sé stesso; perché ascoltando me in realtà ascolta sé stesso. Alle questioni poste in scena, lo spettatore risponde a modo suo. Parlando con me stessa, parlo con ogni spettatore e con tutti loro. E le vibrazioni della loro presenza parlano a me. Ciò che più desidero è la loro, la nostra libertà. La libertà di ognuno e di tutti. Per questo ogni volta è diverso. E ogni volta provo verso i miei spettatori una profonda accettazione, un profondo rispetto, una gratitudine immensa, un amore sconfinato. Insieme celebriamo l’essenziale bellezza della vita. Nel nostro procedere quotidiano, tra i tanti problemi, responsabilità, difficoltà e paure (presenti e passate) che incontriamo, siamo capaci di dimenticarci di un fatto essenziale: la vita è bella. Con il teatro piangiamo, ridiamo, ci arrabbiamo…Impariamo a sentire, a vivere ogni emozione e a scoprire che ognuna ha la sua bellezza. Il rito teatrale ci offre la possibilità di andare oltre le nostre stesse abitudini psicologiche e insieme attingere alla semplicità e alla bellezza dell’essenza.

I miei Spettacoli sono monologhi, perché nel Monologo ho trovato la forma di relazione artistica per me più diretta, intensa ed efficace. Per quanto detto sopra a proposito del rapporto con lo spettatore, i miei monologhi hanno un senso fortemente relazionale, collettivo, comunitario. Durante un monologo non mi sento mai sola, perché con me c’è Chiara, c’è lo Spettatore e c’è Altro: c’è Integrazione e c’è Unità. Il mio è Teatro d’Attore, Teatro di Voce e di Parola. Teatro di Poesia. D’attore perché la mia presenza scenica, il mio corpo, la mia voce, il mio spirito sono gli strumenti essenziali del mio lavoro, che ha, si potrebbe dire, un approccio fortemente artigianale. E perché assumo su di me tutte le funzioni principali della creazione teatrale: quella drammaturgica, quella registica e quella attoriale.  Intrattengo un rapporto molto vitale con la Letteratura. Spesso i miei testi nascono da un dialogo intenso, rispettoso, creativo con autori e testi letterari, ai quali la mia scrittura va ad intrecciarsi. Non si tratta naturalmente di riferire un testo, ma di interpretarlo. È un processo alchemico che attinge alla tradizione e a certa scrittura per dar voce al presente e al futuro. Con i miei strumenti scenici ed umani, e soprattutto con una pratica artistica della mia voce canto la parola, intesa come luogo di incontro tra emozione, suono e significato. Tre dei miei Spettacoli attualmente disponibili (Il Piccolo Principe. Viaggio in cerca di ascolto; Un, due, tre…Andersen! Favole d’Amore, Verità e Bellezza; Perché la Fantasia) fanno parte di un processo che potrei definire “Trilogia della Favola” e rappresentano sicuramente un certo Teatro di Narrazione. Sono narrazioni interpretative, drammatizzate, teatrali, artistiche. Questi lavori sono legati al mio confronto con il tema dell’infanzia. Sono spettacoli per ragazzi e per adulti. Per ragazzi perché ispirati a testi di letteratura cosiddetta per ragazzi e perché contengono tutti l’elemento del gioco e della fantasia come principali modalità educative. Sono spettacoli per adulti perché attraverso di essi lo spettatore adulto, immerso anche lui nella magia dell’atmosfera, può incontrare il bambino che è in lui (quello che in psicologia viene definito il Bambino Interiore). Ascoltarlo ed ascoltarsi. Per esperienza posso dire che si tratta di spettacoli ideali anche per un pubblico di età mista. Essi svolgono, infatti, anche una forte funzione di incontro intergenerazionale, offrendo spunti interessanti sul rapporto con l'infanzia anche a genitori e a professionisti dell'educazione. Per questi miei lavori ho coniato l’espressione Monologhi Polifonici, perché in essi interpreto una pluralità di personaggi ognuno caratterizzato da una propria fisicità e da una propria voce, integrati a formare un tutto unico la cui motivazione più profonda è sempre l’autenticità. Nella mia Lettura-Spettacolo …Forse s’avessi io l’ale…Cantando Giacomo Leopardi, la materia di partenza è invece prevalentemente poesia (ma non solo). Qui l’uso artistico della voce si esprime soprattutto secondo parametri di musicalità parlata come ritmo, volume e altezza.* Con un linguaggio metaforico e variopinto, tutti questi lavori parlano soprattutto di relazioni: relazione tra realtà e fantasia, relazione tra le diversità, relazione esperienziale con la letteratura attraverso l'espressione scenica, relazione tra adulto e infanzia. In tutti questi casi, al di là del fatto che il lavoro riguardi letteratura in versi o meno, considero il mio un Teatro di Poesia, nel senso di una pratica estetica del linguaggio, di un gioco ardente sul cromatismo dei sui aspetti, che qualora abbia come partitura musicale e semantica le parole, incontra nella vocalità attoriale il migliore strumento. Il mio strumento principe è appunto la Voce. La voce è corpo, suono ed emozione. La voce dà senso. Attraverso l’intensità e il colore della voce, la parola assume un senso diverso.

La mia ricerca artistica è fortemente connessa al mio impegno in campo educativo. Viviamo in una società che troppo spesso ci chiede di fare dimenticando il nostro essere. I miei Progetti di Teatro Educativo intendono dare un contributo al recupero del nesso preziosissimo tra l’azione e il sentire di chi la compie. L’ascolto di sé stessi è alla base di qualsiasi reale azione espressiva e comunicativa. Da questo principio deriva l’articolazione di questi miei percorsi in tre fasi principali tra loro strettamente connesse: un mio Spettacolo con Incontro di Approfondimento a seguire; un Corso in diversi appuntamenti per partecipanti che hanno assistito allo spettacolo; una Condivisione Conclusiva del lavoro svolto dai partecipanti. Non si tratta di imparare a recitare, ma di allenarsi a vivere. Per supportare il processo di crescita integrale di ognuno nel contesto di gruppo, offro un approccio didattico trasversale fondato sul lavoro incrociato su corpo, emozioni, voce e linguaggio. In un’atmosfera accogliente e ludica, i partecipanti vivono quindi percorsi di educazione emotiva, relazionale ed espressiva. Educare, nella sua etimologia latina (ex-ducere) significa trarre fuori. In questo senso mi definisco educatrice teatrale, perché non inserisco nozioni e tecniche sopra una tabula rasa, ma sostengo chi mi sta di fronte nello scoprire e sviluppare le sue proprie potenzialità e i suoi desideri. L’obiettivo principale dei miei percorsi educativi è la crescita umana, non è il risultato scenico. L’estetica è importantissima e si manifesta, perché, insieme agli allievi, con le mie capacità professionali e con tutto il mio cuore, orchestro la bellezza che è già in loro. Questi miei percorsi sono dedicati in particolar modo alla narrazione, all’espressività vocale e all’uso creativo del linguaggio verbale. Saper esprimere e narrare con un linguaggio originale significa poter interpretare e comunicare esperienze, pensieri e sentimenti in modo piacevolmente autentico ed efficace, dando alla propria visione ed alla propria identità la possibilità della condivisione. Per tutti questi motivi il mio lavoro di educazione teatrale ha una valenza individuale, sociale, relazionale, di inclusione e di integrazione multiculturale. Dunque per me il Teatro è anche una missione politica (intendendo con la parola “politica” la cura della comunità): è il mio modo di contribuire concretamente al sogno di una società composta da persone vive e autentiche, capaci di creare la propria felicità e di condividerla. Persone capaci di amarsi e di amare.

Il mio Teatro è Vita. Nei vari aspetti in cui lo pratico (Ricerca Interiore, Creazione Artistica, Evento Scenico condiviso con lo Spettatore ed Educazione) sono coinvolte tutte le dimensioni dell’umano essere al mondo: la dimensione fisica, corporea, biologica, la dimensione materiale, la dimensione psicologica, la dimensione relazionale, sociale, politica, la dimensione estetica, la dimensione spirituale e tutte le connessioni tra queste dimensioni. Potentissima opportunità di indagine, di crescita, di trasformazione!

Perché il mio Teatro? Per amore. Per chi? Per me, per ognuno, per tutti. Purché sia vero.

 

Bologna, 21 gennaio 2022

Chiara Amplo Rella

 

* Nota del 23 ottobre 2023:

Nel marzo di quest'anno ha debuttato il mio Spettacolo Benvenuti al CHIÀbaret! Crogiolo di monologhi brillanti. Questa creazione, un susseguirsi di numerosi sketch intrecciati in una cornice narrativa, nasce dal mio forte desiderio di condivisione e di leggerezza durante l'isolamento del 2020 dovuto alla Pandemia Coronavirus. Lo stile comico, con cui affronto tematiche anche molto serie in questo spettacolo, è perfettamente coerente con la totalità della mia ricerca artistica e complementare, per quanto riguarda i miei intenti generali, ai diversi stili che caratterizzano agli altri miei lavori.

 

© Tutti i diritti sull’articolo sono riservati all’autore Chiara Amplo Rella. È vietata qualsiasi riproduzione anche parziale dei contenuti delle presenti pagine senza autorizzazione dell'autore.

 

 

Appunti sulla parola scenica

Senso tra voce e linguaggio

Di Chiara Amplo Rella

 

    Ferdinand de Saussure, iniziatore della moderna linguistica generale, distingueva, nell’ambito del linguaggio, due diverse dimensioni: la lingua come struttura e la parola come insieme di variazioni, sostenendo il lavoro del linguista doversi concentrare esclusivamente sulla prima. Da bravo strutturalista, proponeva cioè di studiare l’aspetto sincronico (stabile, almeno nel senso di contemporaneo) del linguaggio e non quello diacronico (storico-evolutivo) come invece avevano fatto i grammatici a lui antecedenti: la struttura del sistema linguistico, insomma, e non le modificazioni sempre in opera in esso. Con langue intendeva indicare la dimensione sociale, intersoggettiva del linguaggio, essendo la parole secondo lui legata piuttosto all’uso particolare che ogni individuo fa di questo sistema comune. Il nucleo fondamentale del fenomeno linguistico era, nella sua teoria, il segno, costituito da due elementi fondamentali: significato (concetto) e significante (immagine acustica del concetto), legati tra loro da una relazione arbitraria. L’arbitrarietà di questo rapporto non consiste in una dipendenza dalla volontà dei soggetti parlanti, ma anzi nel fatto ch’esso è innecessario ed immotivato, ossia deriva da una serie di circostanze che avrebbero potuto verificarsi, non verificarsi o verificarsi differentemente portando a risultati diversi. In altri termini: l’idea di ciò che chiamiamo “albero” potrebbe essere indicata dalla parola “tetto” o da qualsiasi altra. La linguistica di Saussure riguarda principalmente la produzione orale, non la scrittura, ch’egli considera un sistema di segni distinto da quello della lingua avente l’unica funzione di rappresentare quest’ultima. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, la sua predilezione per la langue non è esattamente negazione del valore della parole, ma della sua importanza scientifica. Non è che egli pensi il linguaggio come entità stabile e immutabile, ma crede nella possibilità di studiare soltanto gli elementi strutturali presenti in esso in un dato momento. Egli compie, cioè, un atto di astrazione di questi elementi dalla concretezza della vita linguistica.

    Più tardi altri pensatori francesi, per certi versi debitori delle sue riflessioni, avranno molto da dire e da ridire sull’impostazione di un discorso che condiziona largamente ancora oggi lo studio del linguaggio. Jacques Derrida, ad esempio, cercherà di restituire alla considerazione del linguaggio la dimensione temporale per evitare l’equivoco di considerare i mutamenti, le differenze, come anomalie estrinseche ad un sistema di per sé omogeneo, pur assorbendo la critica saussuriana ad una grammatica di stampo relativista-evolutivo. Proporrà, insomma, un approccio né storicista né strutturalista all’essenza del linguaggio, considerandolo non come semplice forma bensì come sostanza stessa del pensiero e tenterà di riabilitare filosoficamente, tra l’altro, il dispositivo della scrittura, o almeno un certo tipo di scrittura, quella non servile, quella che porta con sé una radicale protesta verso l’impero della logica. Perché questa argomentazione ruota tutta attorno alla messa in discussione del logos come unica possibilità linguistica – e quindi come forma mentis privilegiata. Gilles Deleuze, infatti, in Logica del senso sentirà il bisogno di introdurre il concetto di senso nell’ambito di una riflessione sulla proposizione, la quale dagli specialisti viene comunemente analizzata secondo tre dimensioni riconosciute: designazione (rapporto tra proposizione e cose esterne), manifestazione (rapporto tra proposizione ed il soggetto che attraverso questa si esprime) e significazione (rapporto tra proposizione e concetti). Come già riconosciuto da Saussure, quest’ultima, si noti bene, non riguarda quindi le cose (referenti che appartengono alla realtà extralinguistica) bensì le idee delle cose, ragion per cui il suo valore logico non sta nella sua verità o veridicità, ma nella sua condizione di verità. La significazione non si oppone dunque al falso, ma all’assurdo, cioè a ciò che manca di significazione e che non può dunque essere né vero né falso. Il senso, invece, è per Deleuze trasversale alle altre tre nozioni, anzi, più che uno degli elementi del linguaggio, esso ne è prodotto, effetto. Secondo il filosofo, il senso è un extra-essere che si situa tra il possibile e l’impossibile ed è per natura doppio. Esso comprende, in qualche modo, anche il cosiddetto non senso, ben diverso dall’assurdo che non significa. Il non senso così considerato è in poche parole un gioco di senso, una mobilità di senso tutt’altro che insensata. Insomma, in breve, quello a cui Deleuze mira è svincolare l’idea di senso dalla sudditanza incondizionata alla logica, al discorso prosastico, al buon senso (che legge gli eventi come unidirezionali) e al senso comune (che interpreta le cose come dotate di identità precise e definibili). Il senso, dunque, non coincide per lui con il significato, ma è in rapporto con esso, non ne è privo. In questo modo egli intende anche liberare il pensiero dalla schiavitù del logos e delle sue categorie, ricordando ad esempio come le vette più alte della filosofia di Nietzsche si esprimano nel linguaggio dell’aforisma e del poema.

    Il linguaggio è certamente una delle caratteristiche e delle possibilità umane più complesse e sorprendenti, studiato negli ambiti più disparati, del quale qui ho solamente inteso delineare qualche tratto che possa servire da impulso al dipanarsi della questione che mi sta a cuore. Che cosa ha a che vedere tutto questo con il teatro? Moltissimo, se si tratta di un teatro parlato, che si trova per forza di cose a fare i conti con la produzione linguistica, con i disagi e con le potenzialità che comporta. Che si trova, qualora vi sia una concreta profondità di ricerca, a porsi le domande: il linguaggio è un limite o un mezzo? Quale tipo di linguaggio è il più adatto al teatro? E al mio teatro? Che cosa voglio, se voglio, comunicare in scena con le parole che pronuncio? E perché?

    Secolo teatralmente densissimo, il Novecento ci offre l’esempio di esperienze estremamente ricche e diversificate anche dal punto di vista del ruolo del linguaggio nell’arte scenica. Da una parte abbiamo il modello del teatro di regia affermatosi, appunto, nel corso del secolo passato, che, fin dai suoi esordi naturalistici di fine Ottocento, è, almeno per quanto riguarda la corrente maggioritaria, fortemente connesso con l’idea di testo come entità unitaria a priori da rappresentare in scena grazie principalmente alla sua comprensione da parte del regista. Questo modello, dunque, mentre rivendica l’autonomia dell’arte scenica, ne implica la sudditanza al testo. Una fra le importanti eccezioni a questa tendenza è sicuramente il regista-pedagogo Stanislavskij, il quale rinnova il rapporto tra testo-regista-attore, approfondendo l’aspetto psicologico ed emotivo dell’interpretazione attoriale e lasciando un segno indelebile nella storia della recitazione. Dall’altro lato, nello stesso secolo che aveva visto imporsi il suddetto modello, c’è l’avventura innegabile e ormai riconosciuta del superamento del teatro di regia (avvenuto forse proprio attraverso lo sviluppo dell’idea di responsabile unico dell’evento teatrale insita nella figura del regista) che porta con sé anche una più originale considerazione del parlato scenico. Per semplificare: mentre si va (o si torna) verso un teatro d’attore, sempre più capace di essere regista e autore di sé stesso, si rende necessaria per l’attore stesso la ricerca di un linguaggio suo proprio non più esattamente identificabile con quello del testo. Questa ricerca linguistica risulta, tra l’altro, estremamente connessa con l’idea di un intenso allenamento corporeo. Ciò avviene nel secondo Novecento sia attraverso il lavoro di alcuni gruppi di ricerca (quali quello di Grotowski o il l Living Theatre), sia attraverso l’emergere di figure uniche di attore-autore-regista (due grandi esempi nostrani: Dario Fo e Carmelo Bene). Già Antonin Artaud aveva, con potenza e radicalità visionarie che non hanno forse uguali, affermato, tra l’altro, l’insufficienza del linguaggio discorsivo a teatro e la necessità di una parola scenica di cui privilegiare le qualità sonore e musicali rispetto alla dimensione del significato. Ed è stato poi Carmelo Bene a proporre la messa in atto della destrutturazione scenica della lingua. Il suo lavoro, se vogliamo schematizzarlo, si può riassumere in due punti fondamentali: monologo e voce. Monologare, per Bene, significa assumere su di sé tutte le voci dell’evento, significa debordare l’io psicologico tramite le trasformazioni della voce: è l’esperienza dell’unità del molteplice, oltre i confini esistenziali delle identità separate. E la strumentazione fonica è, in questo caso, l’ausilio tecnologico al superamento del soggetto. In favore dell’emozione. Sempre parlando di monologo, accanto alla strada metafisica e poetica appena delineata c’è quella validissima di una narrazione monologante di ascendenza popolare e giullaresca. È la strada, per intenderci, indicata dal leggendario spettacolo Mistero buffo (1969) di Dario Fo. Significativo dal punto di vista linguistico è in questo spettacolo l’uso del grammelot. L’attore imita sonorità di lingue straniere senza che esse rimandino ad alcun valore semantico, fonde diversi dialetti padani (lombardo-veneto-friulano) ed arriva alla vera e propria invenzione di parlate sulla base del richiamo a cadenze e sonorità dialettali; il tutto sapientemente arricchito dall’impiego onomatopeico di fonemi e gruppi di fonemi. In questi casi la comunicazione, la comprensione stessa del linguaggio verbale (presente eccome, anzi straripante nel flusso continuo di un discorso in sé asemantico) avviene proprio grazie alla collaborazione di tutti i dispositivi comunicativi non verbali e paraverbali: vocalità (suoni onomatopeici, diversificazione timbrica, ritmica e tonale), mimica, postura, movimento, gestualità. Il risultato esilarante è che pur non capendo niente si capisce perfettamente tutto!

    È chiaro che non c’è, non ci deve essere, una sola via, né un solo modo giusto di fare teatro. La differenza è, in arte e non soltanto, indubbiamente una ricchezza. La varietà di stili, di poetiche e di pratiche è un bene: una cosa non esclude l’altra; anzi si possono a volte trovar contatti e reciproci stimoli fra punti di vista apparentemente distanti, mentre distanze essenziali separano moventi ed effetti di scelte a prima vista vicine. Ma sono convinta anche che sia necessario (ed anche responsabile) distinguere e distinguersi per cercare un pertugio nel calderone della chiacchiera omologante qualunquista e nevrotica che caratterizza la nostra epoca, per offrire e condividere ancora intatta una gemma di vita con tutte le sue contraddizioni e le sue ambiguità. La mia direzione non è quella di un teatro del testo.  Non sono le idee di uno scrittore a dover essere riproposte in scena con devozione, poiché oltretutto non è nell’atteggiamento di riverenza che si esprimono il rispetto e l’amore per un testo letterario. L’arte teatrale non consiste certo nella sudditanza ad un’altra opera d’arte – pensata o no in modo specifico per il teatro - da prendersi come struttura stabile. Certo, il rapporto tra teatro e letteratura può essere fruttuosissimo. A patto che si tratti, appunto, di un rapporto, di una relazione. Le possibilità del lavoro drammaturgico sono molte e tentarne qui una casistica non avrebbe senso. Basti dire che, laddove vi sia un testo di partenza, ritengo necessario il lavoro di appropriazione e rielaborazione del testo, che può essere gioiosa, ma anche sofferta e contrastata, da parte dell’artista di teatro. Altrimenti la funzione della letteratura a teatro risulterebbe equiparabile a quell’astrazione dalla vitalità dell’uso concreto che Saussure caldeggiava – ma almeno il suo scopo era scientifico - con il concetto di langue. Il testo con una funzione prioritaria per l’opera teatrale, struttura già data in partenza, è un fattore di stabilità che rischia di invalidare completamente l’efficacia artistica dell’evento teatrale. Mi piace infatti parlare di teatro di parola e con questa indicazione richiamare alla variazione continua, all’instabilità vitale e singolare dell’espressione linguistica, convinta che sia spesso attraverso l’individualità che si può attingere all’universale. Credo nella capacità della parola di far vibrare attraverso la pelle le corde più profonde dell’anima umana. E ciò mi pare qualcosa di molto semplice e naturale, se solo si riesce ad ascoltare. Credo che il valore estetico della parola scenica sia dato inscindibilmente dal suo significato e dalla sua forma acustica (la quale non è per niente il contenitore vuoto del concetto) filtrate dalle qualità stilistiche della voce che la pronuncia. La proprietà della significazione - cioè il rapporto di coerenza con i concetti - è un aspetto dei più interessanti anche artisticamente, se solo non lo si prende come un dato univoco a priori, scopo principe ed unico di qualsiasi atto linguistico. Perché il significato a teatro non può essere scisso dal suo passaggio attraverso quella forma acustica che è il suono, la concatenazione dei vari suoni, che può variare enormemente secondo molti parametri (accentazione, ritmo, volume, timbro, altezza) e che variando modifica, appunto, anche i valori semantici. Certo, allo stesso modo di un asservimento totale alla dimensione concettuale, uno stile fine a sé stesso può sfociare nel tecnicismo e perdere completamente di pregnanza. Dalla collaborazione dei vari aspetti della parola nasce invece il senso. Ed è l’attore a crearlo, innamorandosi di una combinazione fra le molte possibilità che avrà messo alla prova durante la sua ricerca e che sarà sempre, va da sé, soggetta a trasformazioni e differenze tra una replica e l’altra. In questo senso almeno, l’attore non può non essere anche autore. Ma così facendo egli si fa tramite di infinite possibilità di senso, perché, come cercavo di dire poco sopra, il senso non è un messaggio. E per quanto ci possiamo sforzare, non riusciremo mai a definire il senso di un’opera. Anche perché alla sua vita concorre in buona parte l’attività del ricevente: lo spettatore nel caso del teatro. La parola “senso”, infatti, è portatrice di quella meravigliosa ambiguità tra due idee ritenute quasi opposte: sensibilità e significato. E già questo dovrebbe ricordarci, invece, la loro profonda affinità. Così la parola “estetica”, sia detto tra parentesi, comunemente ormai associata ad un’esteriorità visiva, all’idea dell’immagine, deriva probabilmente dal greco αίσθησις che rimanda più precisamente alla percezione ed alla sensazione. In sintesi: per me, l’attore è uno sciamano. La sua grandezza consiste nell’essere tramite di energie essenziali e profonde. Porta nel cuore un segreto innato, in tutto il suo corpo una competenza guadagnata con l’esperienza, lo studio, l’allenamento. Egli ha per materiale la parola, con tutte le sue proprietà, e per plasmarla ha uno strumento dei più affascinanti perché interno all’organismo umano. La produzione vocale, che avviene attraverso la vibrazione di due minuscole corde, mette in gioco, in effetti, oltre all’apparato propriamente fonatorio, quello uditivo, quello respiratorio e le varie cavità fisiche che fungono da casse di risonanza. Si può proprio dire che essa abbia a che fare con tutto il corpo, con l’organismo nella sua totalità, intrattenendo anche un rapporto strettissimo con l’emotività e con l’affettività umane.

    Detto questo, ripeto, ogni tipo di esperimento è lecito. Si può assecondare il significato o cercare di svincolare da esso il significante, metterli l’uno contro l’altro o usare le parole decontestualizzandole e suonandole indipendentemente da qualsivoglia punto di riferimento logico, esperimento effettuato anche da musicisti del calibro di Stratos e Cage. Si può giungere (o tornare) ad una dimensione presegnica - o extrasegnica - della vocalità, propria di tante pratiche non occidentali, come ad esempio il canto armonico. O ancora, senza volersi qui addentrare nell’affascinante e complesso universo delle glossolalie artaudiane, si può tendere alla reinvenzione del linguaggio verso un rifacimento psicofisico totale. In ogni caso, è importante per me che la questione del linguaggio a teatro continui a prosi, considerando anche il rapporto con la cultura in cui ci troviamo, con le sue distorsioni, i suoi limiti, i suoi retaggi, le sue conquiste e le sue strade ancora da percorrere.

    Siamo dunque da capo: il linguaggio è un limite o un mezzo? Quale tipo di linguaggio è il più adatto al teatro? O meglio al mio teatro? Che cosa voglio, se voglio, comunicare in scena con le parole che pronuncio? E perché? Non si tratta assolutamente di elucubrazioni lontane dall’esperienza. Sono domande che bruciano nel sangue; sono questioni che riguardano il fatto stesso d’esistere, d’essere al mondo, in comunicazione con gli altri, in solitudini asfissiate dai numeri sociali, in contatti eterni che durano un istante, con tutto l’amore, l’insofferenza, l’inadeguatezza che ci accomuna; e ancora l’amore; con la voglia di un oltre, alla ricerca dell’Altro, che ogni tanto si lascia intrasentire e allora le parole non bastano più. Eppure non se ne può fare a meno, no, di questa libertà schiavista che è il dono del verbo. Non adesso, di certo, qui sulla Terra. Troppo semplice sarebbe negare tutto, o almeno le regole, la grammatica, l’intelligibilità, la comunicazione, almeno la saussuriana struttura. Non si può. Questa catena delle relazioni umane, questo dovere di dire qualcosa che significhi e che rimandi continuamente ad altro, questo bisogno di dire qualcosa non si può eludere. Ferita a morte dalla fredda coscienza di tutti i silenzi sonori perduti in quell’altrove che annuso tra le pieghe della tovaglia imbrattata che è il mondo, so che ho davvero soltanto la parola (e il silenzio). Per il mondo e per l’oltre. Parola di luce e di ombre. Il faticoso piacere della scrittura per tracciare i rigagnoli di un sonoro attutito, remoto; per il domani e per l’ieri, per ricordare il futuro a me e ad un lettore lontano ed ignoto. E il teatro, la sinergia della compresenza, per andare oltre la presenza, per portare oltre la presenza, tramite questa: il qui ed ora con lo sguardo che s’apre sull’infinito. Essere insieme. L’attore e il suo pubblico. Ma non indistinti. L’attore che rispetta davvero il suo spettatore si prende le proprie responsabilità offrendogli alternative espressive, non riproponendogli soltanto ciò che lo spettatore già sa come lo sa.  Il semplice assecondare le aspettative del pubblico era chiamato “prostituzione” da Grotowski. E non era certo quello che cercavano Beck e Malina del Living Theatre, né tantomeno (ma questo è già più ovvio) Bertolt Brecht che nella distanza emotiva - non certo nell’assenza di emozione - vedeva forse il mezzo per la libertà. Nel teatro ch’io sogno l’attore è uno sciamano. I partecipanti al rito non devono per forza capire tutto; non è il livello razionale a prevalere. La parola è esperienza. Il teatro di cui parlo, quindi, non può essere una pratica informativa (in cui qualcuno trasmetta a qualcun altro una notizia che quest’ultimo prima non conosceva e che gli è utile conoscere). Il termine comunicazione, inteso in termini psicologici, indica infatti un processo di condivisione e di scambio che si sviluppa attraverso due fattori fondamentali: il contenuto e la relazione. Se prendiamo atto dei processi di comunicazione insiti nell’arte, come è giusto se non si vuol far dell’intuizione un semplice baluardo contro il dialogo, dobbiamo anche considerare e valorizzare l’idea di emozione. E soprattutto la sua intima, realissima efficacia, come momento importante della vita relazionale e quindi anche sociale. Se fino ad ora ho scritto dell’impegno e del travaglio del linguaggio, è conoscendo per esperienza le indicibili gioie che accompagnano questo travaglio nei suoi sviluppi più autentici. E provando un’enorme fiducia nel fatto che ci siano moltissimi esseri umani che di autenticità hanno fame.

    Insomma, per sintetizzare, di cosa ho cercato di parlare? Di poesia. Di un teatro di poesia. L’espressione “teatro di prosa”, infatti, riguarderebbe tutto il teatro recitato distinguendolo dal teatro cantato e musicale (come il teatro d’opera). La parola prosa, però, porta con sé il rischio dell’esclusione di alcuni ambiti di ricerca sulla parola scenica. Preferisco allora, per includere le varie prospettive a cui ho accennato e aprire ad altre possibilità, parlare di un teatro di poesia. Non intendo, chiaramente, con questo termine riferirmi soltanto alla messa in scena di letteratura in versi, ma ad una pratica estetica del linguaggio, al gioco ardente sul cromatismo dei sui aspetti, che, avendo come partitura musicale e semantica le parole, incontra nella vocalità attoriale il migliore strumento. Indagare la parola anche nelle sue possibilità acustiche, considerandola come luogo di incontro tra emozione, suono e significato comporta, tra l’altro, la concretizzazione di un coinvolgimento fortemente empatico dello spettatore. Come implicito forse fin dalle origini del teatro e come affermato chiaramente da significative ricerche artistiche contemporanee, la vocalità può essere un vero e proprio strumento musicale per suonare il parlato, la sua bellezza, la sua vita, e aprire così la strada ad un’autentica espansività del senso.

    Perché ho discorso di tutto ciò? Perché non credo che la questione riguardi il teatro, bensì la vita; la vita biologica, psicologica, relazionale, sociale, spirituale, empirica e virtuale. Non sono certo la prima a dire che se il teatro non fosse che teatro, esso non avrebbe nessuna ragione di essere. E non sarebbe il caso di versar lacrime sulle sue ceneri.

 

Bologna, 25 aprile 2013

Chiara Amplo Rella

 

 

Bibliografia minima

 

Gilles Deleuze, Logica del senso (1969), trad. it. di M. De Stefanis, Milano, Feltrinelli Editore, 2009.

 

Marco De Marinis, Semiotica del teatro. L’analisi testuale dello spettacolo (1982), Milano, Bompiani, 1992.

 

Marco De Marinis, In cerca dell’attore. Un bilancio del Novecento teatrale, Roma, Bulzoni Editore, 2000.

 

Jacques Derrida, Della grammatologia (1967), Milano, Jaca Book, 1969.

 

Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale (1916), a c. di T. De Mauro, Bari,

Laterza e Figli, 1967.

 

Alfred A. Tomatis, L’orecchio e il linguaggio (1963), Como-Pavia, Ibis, 2002.

 

Chiara Amplo Rella, Antonin Artaud e il pensiero del teatro, inedito, tesi di laurea specialistica in estetica, corso di laurea Storia, critica e produzione dello spettacolo. Discussa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze nel 2011. Relatore Gianluca Garelli.

 

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Scorri mio fiume

 

Poesia di Chiara Amplo Rella

 

Scorri, mio Fiume, scorri

Lascia che l'alba ti sorprenda

Là dove i sogni nascono

Dalla morte;

Lascia che il mondo in te si tuffi

Con le sue imperfezioni, con la sua sporcizia

E non aver paura

Della paura

Lascia che viva lascia che passi

Abbi paura (e godila) della bellezza

Scorri e il tuo scorrere, mio Fiume, canta

Null’altro che il tuo scorrere, mio Fiume, è Tutto

Sfocia, mio Fiume

Nel mare aperto sfocia cantando

Però non prima di aver percorso

I letti angusti tra le città.

E quando sarai libero

Quando in oceano mutato sarai te stesso

Ricorda la tua sorgente

Al primo tuo sgorgare ritorna

Ritorna sempre al cuore

Nuovi viaggi sogna, nuove montagne, borghi, valli e città

E nel vorticoso canto dell’eterno, Fiume mio,

Scorri!...                                                                             

Chiara Amplo Rella

 

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